Saturday, March 26, 2011
Trasformiamo in simboli i nostri successi all'estero (come Fiat-Chrysler)
Le guide turistiche dei tour operator egiziani dicono con le indispensabili lusinghe del loro mestiere: «Italiani multo furbi e intelligggenti, spostarono il tempio trecento metri indietro e sessanta più in alto». L'operazione Abu Simbel, a nord della diga di Assuan, fu realizzata a metà degli anni Sessanta da un consorzio internazionale di imprese coordinate dagli svedesi in cui Impregilo aveva una delle quote principali. In Italia l'impresa ebbe una risonanza quasi sportiva, per una forma di orgoglio anche vagamente postcoloniale. E qualcuno tra i baby-boomers ricorda nei sussidiari di 40 anni fa la citazione dei marmisti di Carrara, portati in Nubia da Impregilo e addetti al taglio dei blocchi di arenaria. Di solito le imprese di un paese sono sempre esportatori di cultura. In un libro affascinante, «L'impero irresistibile», la storica americana Victoria De Grazia (cattedra di Storia Europea a Columbia) racconta come nel Novecento l'espansione degli Stati Uniti sul mercato europeo si svolse innanzitutto sul piano culturale e della costruzione di un immaginario vincente. La tesi della De Grazia è che gli Stati Uniti sfidarono la borghesia commerciale europea e la spodestarono, a colpi di Coca-Cola ma anche di Rotary. Nel frattempo è passato un secolo, la globalizzazione e la dimensione internazionale dell'economia sono cresciute, ma radici e origini restano fattori di grande suggestione per le imprese e per le comunità in cui vivono, come vediamo in questi giorni nel dibattito su Fiat-Chrysler. L'Italia quanto è consapevole del potenziale culturale dei suoi successi imprenditoriali? La storia del rapporto tra l'Italia e le sue imprese come simboli di italianità è complicata e fatta di alti e bassi. Dice Elserino Piol, uno dei protagonisti della storia dell'industria tecnologica italiana, che «non c'è mai stata un'attenzione strategica per l'azione delle nostre imprese all'estero». L'attenzione dell'opinione pubblica e delle stesse classi dirigenti dipendeva dalle variabili in gioco. C'era molta enfasi sulla virata pro-paesi produttori dell'Eni di Enrico Mattei, o sul grande insediamento Fiat a Togliattigrad (con tutte le doverose cautele per l'alleato americano), ce ne fu meno sull'acquisizione dell'americana Underwood da parte di Olivetti nel 1959, che per la verità segnò l'inizio della fine del primo tempo per il gruppo di Ivrea, che avrebbe successivamente avuto una nuova vita con Carlo De Benedetti.
Il design industriale - Per tutti gli anni '70 - mentre comincia ad affermarsi come testimonial di italianità il design industriale di ispirazione borghese sospeso tra Joe Colombo e Achille Castiglioni - la spinta simbolica delle operazioni italiane avvenne sulle grandi opere. La diga di Tarbela, ancora Impregilo capofila, per esempio. Giandomenico Ghella, presidente di Ghella spa, tra i leader nelle costruzioni in Sudamerica, vicepresidente Ance, l'associazione dei costruttori, dice: «Ancora negli anni '70 c'era un'idea dei costruttori legata ai grandi successi, alla Ricostruzione e alle grandi realizzazioni internazionali. Noi costruttori eravamo un simbolo di modernizzazione. Oggi l'immagine delle grandi imprese di costruzione è appannata. Eppure all'estero con 44 miliardi di commesse siamo molto più forti di quanto non fossimo allora». Poi arrivarono gli anni '80. E si affermò una specie di epica mediatica della proiezione internazionale. Furono le gesta dei capitani coraggiosi o quattro moschettieri o altre romanzesche definizioni. Le operazioni della Ferruzzi guidata da Raul Gardini in Francia, con l'acquisizione di Beghin-Say, e in America (culminate lateralmente con l'avventura del Moro in Vuitton e America's Cup) ; tutto il tradizionale internazionalismo agnelliano, dai successi personali dell'avvocato, alle perenni trattative di alleanza globale della Fiat, era il turno della Ford in quegli anni, fino al lancio della Uno di Ghidella a Cape Canaveral, e - con un tocco di minimalismo - l'acquisto di Perrier e Evian in Francia, allora terra di conquista per gli italiani. Anche il Cav (che ancora non era Cav) aveva un attivismo internazionale che piaceva ai media. Cominciò da La Cinq a Parigi, con un contorno di dispetti e incomprensioni con Lagardère che non gli era simpatico, come ricordano ogni tanto i dirigenti milanesi dell'epoca. Certo, la pagina più entusiasmante di quella stagione fu anche quella che finì peggio: cioè il tentativo da parte di Carlo De Benedetti che aveva già acquisito un gioiello francese, Valeo, di comprare la Sgb dei Lippens (gli Agnelli belgi). Carlo De Benedetti fu sconfitto, con il contributo decisivo del suo antagonista italiano, Gianni Agnelli, e l'avventura fu seguita dai media con una attenzione quasi calcistica. «Anche se - osserva Piol - così come accade oggi, del resto, l'attenzione era più concentrata sui personaggi che non sui fondamentali o sulle esperienze industriali delle imprese». Negli anni Novanta la spinta si esaurisce. Colpa di Tangentopoli, della crisi, dell'implosione delle classi dirigenti. Dice Patrizio Bianchi, economista industriale. «Il paese che era rappresentato dai campioni, dai raider, dalle grandi opere, vede all'improvviso venir meno la psicologia dell'orgoglio nazionale». In un libro del 2002, La rincorsa frenata, Bianchi si sofferma su quella fase: «Tutto dipese - dice - dalla coincidenza tra l'inizio della globalizzazione, i Pil dei paesi emergenti in crescita tumultuosa, e il cambiamento repentino del sistema politico e delle classi dirigenti nazionali». Simbolicamente il culmine di questa inversione di rotta è la cessione differita di Fiat a General Motors, intesa siglata nel 2000, saltata nel 2005. Poi sono arrivati gli anni Zero. Le grandi imprese italiane rimaste - nel frattempo ridottesi per quantità - sono molto attive nel campo delle operazioni estere, e sono attive - ovviamente con volumi diversi - anche le piccole imprese. Secondo la banca dati Reprint sul totale delle partecipazioni italiane all'estero al primo gennaio 2009, il 29,7% delle operazioni di investimento è fatta da imprese sotto i 50 dipendenti, con un fatturato di quasi 18 miliardi di euro, il 3,8% del totale generato dagli italiani all'estero. Sergio Mariotti, professore di economia industriale al Politecnico di Milano, responsabile del gruppo di lavoro che coordina la banca dati Reprint e pubblica il rapporto «Italia multinazionale». Dice che in Italia si sottovaluta la proiezione internazionale delle imprese: «Se ne parla poco, perché sembra implicare che le cose da noi non vanno bene. In realtà la maggior parte degli investimenti all'estero non sono delocalizzazioni, ma occasioni. Alle imprese italiane portano quote di mercato e Pil. Naturalmente i volumi vengono dalla grande impresa»: 400 imprese investitrici con più di 1.000 dipendenti generano fatturato all'estero per 350 miliardi di euro.
Poche big ma buone - Il numero delle nostre big è calato, ma tutte hanno una dimensione internazionale. L'elenco è noto. Fiat con Chrysler, l'Eni globalizzata, Finmeccanica con Drs, Enel con Endesa, Unicredit con Hvb, ancora nel campo finanziario l'espansione di Intesa Sanpaolo e Generali in Europa orientale. Eppure nessuna di queste operazioni - forse con la sola eccezione della gara vinta da Finmeccanica per l'elicottero U.S.A. nel 2005 - è stata utilizzata come manifesto di orgoglio industriale. Dice Mariotti: «Non sfruttiamo queste operazioni come fanno francesi e tedeschi. Da una parte i governi degli ultimi 15 anni hanno abbandonato l'idea delle politiche industriali. Dall'altra abbiamo maturato una forma di ostilità culturale nei confronti della grande impresa. Abbiamo molte piccole imprese che hanno grandi capacità di entrare nei mercati esteri e di fare acquisizioni, ma il loro effetto di trascinamento è ovviamente inferiore». Per carattere nazionale più che per attitudini liberali, siamo poco propensi a una visione di nazionalismo economico che in Europa rientra in scena con la crisi dell'"idraulico polacco"; solitari, ma molto attivi nella intraprendente tradizione "Mercante di Prato" (Francesco Datini, trecentesco padre del capitalismo italiano). Così la Luxottica dei Del Vecchio ha quasi due terzi dei suoi dipendenti - tra stabilimenti e retail - in Nord America dove genera il 60% del suo fatturato. Prysmian (cavi), 2,7 miliardi di capitalizzazione - cronaca di questi giorni - sta perfezionando l'acquisto dell'olandese Draka. Mapei della famiglia Squinzi ha 56 stabilimenti in 26 paesi diversi. Lo stesso vale per Brembo dei Bombassei, che ha fatto acquisizioni in tutto il mondo. Massimo D'Aiuto, amministratore delegato della Simest, finanziaria pubblica di sostegno alle imprese che investono all'estero dice: «Durante la crisi cominciata nel 2008 il ritmo del nostro impegno di assistenza agli investimenti esteri delle nostre imprese è cresciuto, segno di vitalità del sistema». In totale sono quasi 6.500 le italiane che hanno fatto investimenti e acquisizioni all'estero per oltre 450 miliardi di fatturato nel 2008. Si va dalle grandi acquisizioni fino a investimenti più contenuti per dimensioni, ma molto qualificati per i settori di appartenenza. Datalogic, azienda quotata al segmento Star che produce lettori di codici a barre, per scanner ecc., 350 milioni di capitalizzazione, la scorsa estate ha comprato la californiana Evolution Robotics Retail. La piacentina Bolzoni leader nei carrelli elevatori si espande all'estero in Finlandia, Stati Uniti, Germania, da dieci anni, con graduali acquisizioni dei concorrenti.
I simboli identitari - Ma così come non nasce una produzione simbolica su una delle più grandi operazioni cross border degli anni Zero, Enel che conquista Endesa, né su Fiat-Chrysler (che anzi genera discussioni e dubbi su una sospettata implicita americanità della futura integrazione), né sul raddoppio del Canale di Panama di Impregilo, così neppure nasce su operazioni nella moda o nel lusso: l'acquisizione di Ray-Ban e Brooks Brothers da parte della famiglia Del Vecchio, per esempio, o di Church da parte di Prada. Eppure, se ha ancora un senso la logica espansiva descritta da Victoria De Grazia, «a integrare il presidio delle grandi imprese rimaste, dovrebbero essere le forme di eccellenza, e cioè meccanica, moda e lusso, la nostra Hollywood, il nostro veicolo di rappresentazione di un modello culturale - dice Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi -. La creatività di alto livello, da Armani a Prada alla Ferrari, è oggi il vero segno distintivo dell'identità italiana». Un caso sovente citato è quello del gruppo Tod's guidato da Diego Della Valle. È diventato il primo azionista dei grandi magazzini di lusso newyorkesi Saks, distributore dei prodotti italiani di alta gamma negli Stati Uniti. Dopo aver acquistato e rilanciato uno storico marchio francese, Roger Vivier, sta facendo la stessa operazione con una icona del confronto culturale tra Francia e Italia, la maison Schiaparelli. Mitica, perché Elsa Schiaparelli, romana di nascita e munita di prestigio sociale e parentele, negli anni 30 fu la grande rivale di Coco Chanel con il suo atelier di Place Vendôme; e lei, Coco, fatta da sé - inventrice di un gusto semplice, lineare, rigoroso - liquidava l'aristocratica avversaria, più immaginifica, colorata (inventò il rosa shocking), con uno sprezzante «l'italienne».
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 17/2/2011)